Come possiamo conoscerci e capire chi siamo?
Ipotizziamo di avere due possibilità diverse per approcciare la vita e indagare l’esperienza: una ascoltando le sensazioni del nostro corpo, attingendo ad una intelligenza intuitiva e creativa tipica dell’età infantile e l’altra affidandosi all’intelligenza razionale e alla capacità cognitiva tipica dell’età adulta.
Secondo questa tesi quindi la codifica della realtà farebbe capo a due principali modalità:
vivere l’esperienza – attraverso il corpo
comprendere l’esperienza – attraverso la mente
Quale è il tuo approccio alla vita?
Se accedi alla realtà attraverso l’ascolto dal corpo includerai anche quella parte invisibile agli occhi, che la comprensione mentale non considera perché decodifica l’esperienza secondo i propri parametri e limiti (condizionamenti culturali, sociali, sovrastrutture)
In altre parole quando si esperisce la realtà attraverso il sentire ci si sintonizza in modo naturale sia con il visibile sia con l’invisibile e il significato concettuale di ciò che accade svanisce. A questo livello siamo maggiormente in linea con quello che possiamo chiamare “il nostro sé”, la parte più vera e profonda di noi stessi, la fonte stessa della Creazione e che a volte viene anche chiamato AMORE.
Questo modo di percepire e interpretare il mondo è tipico del periodo della fanciullezza.
L’età puerile è il momento in cui gli esseri umani sono connessi (o non-separati) anche a quella parte invisibile della realtà. I bambini infatti si sentono tutt’uno con il mondo che li circonda e sono ricettivi a tutti gli input esterni. E quindi esperiscono la manifestazione attraverso le loro forme senza porsi domande concettuali ma semplicemente “vivendo la vita”.
Alcuni psicologi, tra cui D. Winicott, sostengono che il lattante viva uno stato di fusione totale con la realtà esterna e pertanto si identifichi con il mondo che lo circonda. Nella crescita poi la madre e gli “oggetti transizionali” (oggetti concreti o esperienze come il gioco) hanno un ruolo fondamentale nel far concepire al bambino l’esistenza di un “non-me” o “sè separato”.